Fondere cannoni per trasformarli in campane? No. Fondere campane per trasformarle in cannoni.

Come disintossicarsi da quattro anni di celebrazioni patriottarde e militariste culminate con la “Festa della Vittoria”? Documentandosi su un fatterello ignoto ai più: la cessione di campane – da parte del Vaticano allo Stato Maggiore della Difesa – per fonderle e realizzare cannoni. Che fa luce anche sulla figura di Papa Benedetto XV, immeritatamente noto come “Papa della Pace”, per una sua famosa omelia sulla “inutile strage” dell’agosto 1917, ma che, ad esempio, non ebbe nessuna remora a fornire all’esercito italiano 24.446 ecclesiastici e 2400 cappellani che, oltre a benedire i soldati in procinto di uccidere e farsi uccidere, svolsero un’ampia attività di propaganda bellica tra i soldati.

Ad esempio, demonizzando le diserzioni:

Credete voi che si possa vincere una battaglia, una lunga e aspra guerra quando il povero capitano invece di pensare a combattere il nemico deve esaurirsi a spronare i suoi soldati e difendersi dai suoi sotterfugi? Il soldato che fa il soldato per paura (delle punizioni, della prigione o della fucilazione n.n.) è la rovina del reggimento e dell’esercito. … Il buon soldato fa quello che deve fare perché è il suo dovere, perché egli ama il superiore, ama la disciplina, ama la Patria, ama il buon Dio”

Altrettanto poco evangelico Mons. Bartolomasi, Vescovo con giurisdizione su tutto il clero in armi: “Soldati, vi desidero forti, perché tali vi desidera ed ha bisogno che voi siate la Patria, tale è il dovere vostro; e dalla fortezza vostra compatta per disciplina, temprata per virtù d’animo dipendono le sorti delle armi. La Patria guarda a voi, spera in voi, da voi attende il lieto giorno di pace gloriosa”.

Ma torniamo alla faccenda delle campane, raccontata da Annibale Paloscia nel libro Benedetto tra le spie.

Intorno al 10 maggio 1917 il presidente del Consiglio Paolo Boselli chiamò d’urgenza a palazzo Braschi, sede del governo, il barone Carlo Monti, intermediario tra il governo italiano e la Santa Sede.

 Al colloquio era presente il ministro della Guerra Paolo Morrone, un militare di carriera che fino a un anno prima aveva comandato un corpo di armata. Boselli intendeva prospettare al Vaticano un affare che avrebbe aiutato l’Italia a risolvere una delle più gravi emergenze della guerra. Contava sull’influenza che Monti aveva su Benedetto Quindicesimo, con il quale aveva conservato l’antica e affettuosa amicizia di quando erano compagni di scuola.

 L’emergenza era la conseguenza dell’immane sforzo bellico fatto dall’Italia.

 Era stata aumentata la produzione mensile di cannoni da 80 a 500 per rafforzare le capacità difensive e offensive dei 120 chilometri di trincee che costituivano la prima linea del fronte. Il peso sulle casse dello Stato era stato enorme, soprattutto per le costosissime importazioni di rame e stagno, le materie prime di cui aveva bisogno l’artiglieria.

 Per compensare le ferite al bilancio era stato necessario realizzare risparmi sulle importazioni alimentari e nel paese si soffriva per la scarsezza di viveri che aveva come conseguenza il continuo rialzo dei prezzi. Che rimedio si poteva prendere?  Come si poteva evitare che i socialisti, con la parola d’ordine della pace subito, sollevassero contro il governo le masse affamate?

 Secondo Boselli si poteva affrontare la crisi alimentare a una sola condizione: che si riducessero le importazioni di rame e zinco trovando un sistema più economico per il fabbisogno dell’artiglieria. Era questo il punto cruciale.  Il ministro della Difesa aveva proposto una soluzione semplice nella sua fattibilità, ma delicata per le questioni preliminari che si potevano districare solo con il consenso delle autorità ecclesiastiche.

 La soluzione era quella di ricavare il metallo per l’artiglieria dalle campane, le migliaia di tonnellate di campane vecchie o in disuso che facevano parte del patrimonio delle parrocchie. Lo Stato italiano era disposto a comprarle a un prezzo equo per fonderle e farne bocche da fuoco. Il governo confidava nell’autorevole mediazione di Monti perché il papa desse l’autorizzazione alla vendita delle campane.

 La proposta poteva apparire irriverente nei confronti di Benedetto Quindicesimo. Con le continue esortazioni a mettere fine all'”inutile strage”, Giacomo Della Chiesa si era guadagnato l’universale riconoscimento di “Papa della pace”.

 Con grande fervore la diplomazia vaticana stava mettendo sotto pressione tutti i governi, e specialmente il presidente americano Wilson, perché fosse data favorevole accoglienza a una nota pontificia sulle condizioni della pace. Non era stata ancora pubblicata (sarà solennemente resa pubblica il 1° agosto), ma i nunzi apostolici si erano adoperati ad anticiparne i contenuti e a raccogliere gli umori delle cancellerie più autorevoli. Papa Benedetto indicava come condizione preliminare per giungere alla pace un accordo immediato tra tutti i paesi in guerra per la progressiva riduzione degli armamenti.

 Quella proposta suscitava speranze di pace nel deserto della guerra, ma irritava contro il papa i governi risoluti alla vittoria delle armi. L’attivismo pacifista della corte papale era inconciliabile con la vendita delle campane a uno Stato che voleva usarle per fabbricare cannoni e mitragliatrici. L’Italia aveva sempre avversato le iniziative di pace di Benedetto Quindicesimo e voleva concludere la guerra in un solo modo: con la resa dell’Austria. Nazione carissima al papa per l’atteggiamento del suo imperatore da sempre protettivo verso la Santa Sede.

 Monti, che conosceva bene Giacomo Della Chiesa, lo riteneva per metà santo e per l’altra metà un capo di Stato duttile e realista. La seconda considerazione in quel momento prevalse e l’intermediario non esitò a trasmettere la proposta al segretario di Stato Gasparri, sottolineando con enfasi la convenienza dell’affare perché “le campane verrebbero acquistate per conto dello Stato al prezzo elevatissimo di sei lire al chilogrammo, che consentirebbe, a guerra finita, non solo di comprarne delle nuove, ma anche di realizzare un profitto non indifferente”.

 Gasparri convoca l’intermediario per il 12 maggio e gli dà la risposta: la Santa Sede è disposta ad assecondare il governo, ma chiede a sua volta che il governo eviti “la ingiusta condanna di monsignor Gerlach”.

 Chi è monsignor Gerlach? Perché è così importante per il papa?

 Perché il papa ha tanto interesse alla sua assoluzione da mettersi nella infelice condizione di pagarla con la cessione delle campane, rischiando di screditarsi?

 A Roma è in corso davanti al tribunale militare un processo per spionaggio a favore dei tedeschi e degli austriaci. Sotto giudizio sono sei persone. Il prelato bavarese Rudolph Gerlach, cameriere segreto di Benedetto Quindicesimo, è l’imputato principale: deve rispondere di aver tramato contro l’Italia e di aver pagato le spie. È processato in contumacia perché con un accordo segreto tra Santa Sede e il governo italiano è stato fatto sparire oltre confine.

Troppo lungo spiegarvi qui perché il Vaticano tifava per l’Impero Austroungarico e perché Papa Benedetto XV proteggeva Gerlach. Forse perché aveva paura di fare la fine del Generale Pollio, Capo di Stato maggiore, avvelenato dai servizi segreti francesi con l’aiuto del governo italiano? Magari, ve lo racconto un’altra volta.

Francesco Santoianni

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